Dove un tempo i ragazzi di vita si tuffavano nel Tevere, oggi passano solitari e silenziosi ciclisti e runner. Del Ciriola, il famoso stabilimento balneare all’altezza di Ponte Sant’Angelo, restano soltanto l’eco letteraria di Pier Paolo Pasolini e qualche foto ingiallita. Quella riva che “formicolava di bagnanti” ora è invasa da erba alta e sterpaglie. A popolare le acque dove “i fiumaroli prendevano il sole sul galleggiante” sono rimasti i germani reali, qualche airone, gli immancabili gabbiani e le carcasse di biciclette e monopattini elettrici vandalizzati. È anche da quel che resta di simboli come il Ciriola che cammina il ricordo di Pasolini, a 50 anni dalla tragica morte. È da qui che può cominciare un viaggio tra i luoghi che hanno segnato la sua vita e quella di Roma, “città stupenda e misera”.
“Si stendeva calcinante Monteverde”
Tra quei giovani bagnati dal fiume c’era anche Silvio Parrello, il Pecetto in Ragazzi di vita, oggi poeta e pittore nel suo studiolo a via Ozanam. “Solo chi l’ha visto può ricordarsi com’era”, spiega Parrello a Lumsanews mentre passeggia per le strade di Monteverde, dove è cresciuto. “Qui era tutto agro romano, pascolavano le pecore, passava una macchina al mese”, racconta.
Quando Pasolini pubblicò il romanzo, Silvio aveva sette anni. Ricorda ancora la prima volta che lo vide. “Arrivò con la macchina, scese, posò su una panchina la sua giacca e dei libri e cominciò a calciare il pallone” in uno spiazzo che oggi è possibile solo immaginare: “Dove c’era il campetto da calcio ora c’è la scuola De André”, chiusa e ormai abbandonata da anni. Gli incontri che si fanno lungo il cammino sono la testimonianza viva di quei tempi: dal nipote di “Er Traballa” (ovvero Riccetto) al fratello di “Oberdan”. A detta di “Pecetto”, qui di Pasolini rimane solo il ricordo. “Se ne parla continuamente, sembra che sia ancora in vita”.
“Il football è uno dei grandi piaceri”. L’erba secca e il degrado del Flaminio
Pochi chilometri più a nord, un altro luogo racconta la malinconia di un tempo ormai perduto. Lo Stadio Flaminio continua a esserci, ma è come se non esistesse più. Il campo dove Pasolini correva dietro al pallone sfidando cantanti e artisti è circondato da cancelli lucchettati, ricoperti di scritte. La zona circostante, diventata un parcheggio di macchine e pullman turistici, è battuta dalle volanti della polizia. I vigilanti, all’interno della struttura giorno e notte, non lasciano entrare nessuno per limitare gli atti vandalici.
“Cristo al Mandrione”. Un passato senza tracce
Se da Flaminio si prende la metropolitana per Arco di Travertino, dopo dieci minuti di passeggiata tra fast food e ristoranti asiatici, si arriva in via del Mandrione. La strada, un tempo transito di mandrie di bestiame al pascolo (da qui il nome), ora è una passerella di officine, villette e appartamenti modesti. Dove adesso regna l’asfalto, nel Dopoguerra vennero trasferiti gli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1943. Camminando per la via, spicca un ristorante: Trattoria Accattone, unico riferimento a PPP. Sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, allora teatro del “disordine più pittoresco” – quello di prostitute, emarginati e dei “quattro muri zozzi, un tavolo, un bidè” cantati da Laura Betti e poi da Gabriella Ferri (su testo di Pasolini musicato da Piero Piccioni) – non resta che il silenzio.
“Brillavano i lumi delle altre borgate, fino a Centocelle”. Dalla terra alla metropolitana
Metro C, fermata Gardenie. Qui ci si trova davanti a una piazza circondata da cemento. Anche stamattina le strade sono invase dalle macchine e dai bus che collegano Centocelle ai quartieri più o meno centrali di Roma. Nel 1960 c’erano terra e polvere, oltre ai primi palazzi di Borgata Gordiani. In Una vita violenta Pasolini scrive: “Poi vennero due o tre con una palla, e gli altri buttavano le cartelle sopra un montarozzetto, e corsero dietro la scuola, nella spianata che era la piazza centrale della borgata”. È il racconto di Piazzale delle Gardenie prima della bonifica della zona, quando invece del catrame c’era il pratone.
“L’universo cittadino è insopportabile”. Che cosa resta di quella Roma
Cinquant’anni dopo l’ultima volta in cui Pasolini vide la sua Roma, sembra non esserci più traccia di quell’universo. “Oggi non resta niente di allora. Ormai quel mondo lì è finito”, ragiona davanti a una tazzina di caffè Ninetto Davoli, l’attore e amante di Pasolini che in quella livida alba del 2 novembre 1975 fu chiamato a riconoscere il cadavere martoriato.
Per il professore di Letteratura moderna e contemporanea Giorgio Nisini, con quella città c’è un certa continuità, ma è più ideologica che fisica: “La Roma di Pasolini, rispetto a quella di oggi, più che venire profetizzata, si riverbera nelle sue contraddizioni”.
“Una città che non è un’ambientazione, ma l’anima del suo incontro col cinema”, sostiene il docente di Storia del cinema Emiliano Morreale. “Un luogo”, aggiunge Nisini, “che diventa già nel secondo Dopoguerra teatro della grande speculazione edilizia, dove c’è il pianto della scavatrice”.
Quei luoghi in cui si era preservata “un’umanità precristiana, pagana, non borghese, che neanche il fascismo era riuscito a scalfire e a corrompere” – continua Morreale – sono stati corrotti dall’arrivo del consumismo, secondo la profezia di Pasolini.
Dacia Maraini condivide questa visione: “La cultura del consumo ha dilagato e invaso tutta la città”. Eppure, per Nisini, i ragazzi di vita continuano a esistere in quei “sottoproletari che vediamo ogni giorno in giro per Roma” e che parlano il nuovo dialetto romano: “Se fosse vissuto oggi, lo avrebbe registrato, ne sarebbe rimasto sedotto”.
Se Pasolini tornasse a camminare per Roma, probabilmente non la riconoscerebbe. Lo dice Maraini, con la lucidità di chi l’ha conosciuto davvero: “I cambiamenti non hanno migliorato la città, l’hanno resa consumistica, volgare. Indifferente. E lui non è mai stato indifferente”.


