Nella corsa al Quirinale il Partito democratico perde faccia e candidati

E ora? Chi sarà il prossimo? In vista del quinto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica crescono i dubbi e le incertezze su quale strada intraprendere. Perché, negli ultimi due giorni, lo sport preferito del Partito democratico sembra essere diventato quello di bruciare candidati per il Quirinale.

Due cavalli perdenti. Prima Franco Marini, poi Romano Prodi: in 48 ore il partito di Bersani non solo ha perso due scommesse dalle quote bassissime ma ha generato un moto che pare non avere fine; così dalla frammentazione all’implosione il passo è stato breve. Impossibile per la direzione del Nazareno esprimere un voto condiviso e convincente; neanche l’abbozzo di accordo con il Popolo della Libertà è servito a salvare la faccia e sgomberare, per una volta, il campo dalle critiche sulla litigiosità congenita ai “democratici”. E pensare che oggi il Pd aveva giocato il jolly, il candidato della prima ora, quello su cui parevano convergere i favori delle varie correnti; un carta gettata sul tavolo quando, però, la partita era virtualmente chiusa. Non solo i “renziani” sono rimasti arroccati sulle proprie convinzioni, ma il banco è completamente saltato.
Segnali di tempesta. Eppure nella giornata di ieri il Pdl aveva addirittura accettato a bocca storta il nome di Franco Marini, purché si ponesse fine a questa lunga stagione di instabilità istituzionale; non così però il resto del centrosinistra, con Sinistra, Ecologia e Libertà che convergeva su Stefano Rodotà, nome indicato dal MoVimento 5 Stelle, e i novanta fedelissimi del sindaco di Firenze che, per protesta, sceglievano l’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino. Risultato: 521 voti per Marini, con il centrodestra compatto ma con 180 franchi tiratori nel centrosinistra; un risultato che, a posteriori, avrebbe garantito l’elezione oggi al quarto scrutinio (quando la maggioranza, da 672, sarebbe scesa a 504).
Il cambio di rotta. Invece no, era una questione di principio; la linea Bersani non poteva subire uno smacco del genere; così, il segretario, ha sparigliato scegliendo di far saltare prematuramente l’ex presidente del Senato (votando scheda bianca al secondo e terzo scrutinio) in attesa di comunicare ai “suoi” il colpo di teatro; rispolverare quel vecchio pallino: Romano Prodi. Un piano infallibile: ex capo del Governo, ex presidente della Commissione europea, personaggio di altissimo profilo istituzionale e particolarmente considerato sul piano internazionale; alcuni mesi fa, poi, gli stessi “renziani” avevano accolto favorevolmente la sua candidatura; se ciò non bastasse, poi, il nome di Prodi compariva nell’elenco dei candidati votati in rete dai “grillini”.
Caos a Montecitorio. La candidatura perfetta, blindata, che invece si è dimostrata un boomerang. Non solo il nome di Prodi ha scatenato le ire del centrodestra, facendo saltare ogni forma di accordo; ma non ha neanche sortito gli esiti sperati sul resto del Transatlantico, con il M5S convintamente ostinato su Rodotà, i “montiani” più orientati sul ministro degli Interni uscente Anna Maria Cancellieri e il Partito democratico, se possibile, ancora più spaccato del giorno prima. Troppo tardi, quindi; i voti del candidato più votato scendevano a 395 (ben sotto quei 504 consensi necessari ma anche molto al di sotto della linea di galleggiamento, fissata a 450, per poter sperare di avere ancora margine di lavoro). I “traditori” erano di fatto aumentati; evidente che qualsiasi proposta non concordata non poteva ottenere granché. Se possibile, Bersani era riuscito a fare ancora peggio del giorno prima; a far crollare un castello già pericolante. Sarebbe bastato fare buon viso a cattivo gioco, attendere il secondo voto odierno e vedere Franco Marini dirigersi a porte spalancate verso il Quirinale; ma la politica non è fatta di “se” e di “ma”.
Verso un nuovo giorno caldo. Sta di fatto che, subito dopo la debacle di oggi pomeriggio, Romano Prodi ha immediatamente rinunciato e il Partito Democratico si trova ora nella necessità di esprimere, per quanto possibile, un candidato condiviso. Ma non è per nulla facile: convergere su Rodotà, tornare su Marini (questa volta, però, quasi sicuramente senza l’appoggio di Berlusconi), accettare la proposta di Monti. Ogni scenario è nuovamente aperto; nel partito c’è ora il timore che qualsiasi nome possa fare la fine dei predecessori. E, a questo punto, un dubbio sorge legittimo: se fosse proprio quello di Pierluigi Bersani il nome che non va?

Marcello Gelardini