“Grazie ad asset digitali e piattaforme non regolamentate, i videogiochi offrono ai criminali un ecosistema efficiente per trasferire e riciclare valore in maniera anonima”. Con queste parole Eugenio Kim Cerra, esperto di cybersicurezza con esperienza decennale, spiega a Lumsanews come operano le organizzazioni criminali nel mondo del gaming.
Quali sono gli strumenti più utilizzati dai cybercriminali per approdare nel mercato dei videogiochi e riciclare denaro?
“Alla fine degli anni ‘90 era in voga il gold farming, ovvero la pratica di utilizzare account multipli per l’accumulo di valuta o oggetti virtuali. Era la prima frontiera del riciclaggio digitale. Con la Corea del Sud e la Russia come Paesi pionieri, i ‘gold farmers’ – umani o tramite l’utilizzo di bot automatizzati – hanno trasformato il tempo di gioco in una fabbrica di denaro, anticipando il concetto di asset digitali come strumenti di conversione economica in un mercato parallelo”.
Come sono cambiate nel tempo queste attività?
“Ora l’utilizzo di bot è esploso esponenzialmente, facilitando l’automazione di questi processi. Oltretutto, con l’avvento dei deep fake e dell’Ia, bypassare sistemi di identificazione digitale è diventato molto più semplice, rendendo i controlli deboli in fase di creazione degli account. Se fino a pochi anni fa servivano competenze tecniche per creare falsi digitali, oggi bastano pochi prompt e un modello generativo. La falsificazione è diventata accessibile quanto il gioco stesso, facilitando anche il phishing e il furto di account già contenenti asset virtuali pronti ad essere rivenduti. Con le criptovalute, le transazioni nei mercati videoludici presentano una tracciabilità sempre più limitata. Combinate con asset digitali e piattaforme non regolamentate, offrono ai criminali un ecosistema efficiente per trasferire e riciclare valore in maniera anonima”.
Esistono somiglianze tra il modo tradizionale di riciclare e le microtransazioni nel mondo dei videogiochi?
“Al di là della scarsità di controlli da parte dei market ufficiali o secondari, il limitato livello di tracciabilità delle criptovalute e la facilità di creare identità digitali agevolano la fase di stratificazione del riciclaggio, dove vengono effettuate numerose transazioni allo scopo di occultare la provenienza illecita del valore scambiato tramite gli asset, che dagli oggetti in-game vengono convertiti in criptovalute. Gli asset digitali possono essere successivamente riconvertiti in monete legali oppure impiegati direttamente come criptovalute, eludendo i tradizionali circuiti di pagamento e gli intermediari finanziari”.
Si tratta di singoli attori o gruppi organizzati?
“Oggi chiunque può orchestrare un sistema di riciclaggio nel gaming: bastano piattaforme accessibili, bot automatizzati e wallet crypto. Tuttavia, nella storia non mancano casi di organizzazioni strutturate che hanno sfruttato questi meccanismi su scala industriale. Gruppi come APT41 (Winnti Group), legato alla Cina, hanno compromesso società di gaming per condurre operazioni di spionaggio industriale e frodi finanziarie, mescolando attività statali e profitto privato”.
Pensa che le software house debbano usare leggi simili a quelle delle istituzioni finanziarie convenzionali?
“Purtroppo credo che, una volta poste barriere al settore videoludico, modelli di riciclaggio simili saranno sempre replicabili in altri ambiti digitali”.
Da parte di queste aziende manca la volontà di applicare restrizioni. Perché?
“Perché una piattaforma che genera traffico e milioni di utenti – reali o non – si traduce in valore economico. Nel modello del gaming-as-a-service, la priorità resta mantenere alti i numeri e l’engagement: più utenti, più ricavi. Introdurre controlli rigorosi o processi di verifica significherebbe creare barriere che riducono la fluidità dell’esperienza, rallentano la crescita e possono incidere sui profitti”.


