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HomeCronaca Emergenza casa a Roma, scene di vita da due occupazioni

Emergenza casa a Roma
Gli sfrattati occupano
E i proprietari protestano

di Laura Bonaiuti12 Febbraio 2019
12 Febbraio 2019

VIDEOINCHIESTA – “SENZA CASA”

 

È un grande edificio bianco sporco con poche finestre. Deve aver fatto freddo all’ex Penicillina di Roma per chi l’ha occupata fino al 10 dicembre. Adesso è solo uno scheletro vuoto, o per alcuni semivuoto, che troneggia a lato del groviera della via Tiburtina a Roma ridotta a una corsia per interminabili lavori di manutenzione. Era il 10 dicembre scorso quando gli occupanti, italiani e stranieri, sono stati costretti ad abbandonare il degrado di quell’edificio, un degrado che però ritenevano migliore, con un tetto sopra la testa, rispetto a un giaciglio per strada. Qualcuno ha tentato di occuparlo di nuovo, dopo appena quaranta giorni, questo immobile sventrato. Al piano terreno c’è ancora un filo di panni stesi: una vecchia coperta, un lenzuolo sporco, una maglietta a righe, un asciugamano.

Anche lo stabile in Viale Costi, poco lontano, a Tor Cervara, sembra uno scheletro senza vita, ma in realtà se si osserva nel cortile qualcuno ci vive ancora. Di fronte alla facciata dell’immobile, separato da una sterpaglia di rifiuti ed erba alta, c’è un piccolo loculo, due metri per due, dove tre sfrattati dall’edificio di via Costi si sono stabiliti. Un loculo che doveva forse ospitare una centralina elettrica e che adesso contiene tre letti, uno di fianco all’altro, qualche pentola, due vuote e una piena di riso scondito, e un piccolo tavolino con un posacenere. “Non hanno fatto che arrestarci”, dicono due degli abitanti sotto questo francobollo di tetto senza bagno. E in effetti occupare un edificio resta un atto illegale.

Fabrizio Ragucci, segretario dell’Unione Inquilini di Roma, dice che non c’è alternativa: occupare o morire di freddo sotto qualche coperta ai lati di un portico o sotto una tettoia. È difficile capire se il problema stia a monte o a valle, è difficile capire di chi sia la responsabilità della cattiva gestione di un’emergenza abitativa che ormai non ha più niente dell’emergenza ma è solo routine. Che sia un problema di case popolari, in effetti Ragucci lo conferma: nella Capitale ne vengono assegnate soltanto 500 ogni anno, mentre in lista d’attesa si sono affollate già più di 15.000 famiglie.

Adesso con il decreto Salvini, convertito in legge il primo dicembre 2018, è il prefetto ad avere maggiori responsabilità. Se non ci sono condizioni di tutela degli occupanti più vulnerabili, si può rinviare lo sgombero di un anno. La legge è così recente che per il momento non si sa se sarà una soluzione o un problema in più.

Quando cento persone oppure cinquanta nuclei familiari italiani e stranieri vengono svegliati all’alba dalla polizia in tenuta antisommossa e obbligati a uscire raccogliendo in fretta e furia la loro poca vita dentro due borse, in realtà non succede niente. È questa la parola che usa Fabrizio Ragucci: “Niente”. Poche soluzioni, qualcuno che è fortunato trova posto in un residence, ma gli altri scappano e si riversano spesso in altre occupazioni abusive come quella di via di Santa Croce in Gerusalemme, dove Andrea, uno dei leader del movimento Action, dichiara che vivono tra le 400 e le 500 persone.
L’edificio di via Santa Croce in Gerusalemme apparteneva all’Inpdap. Nel 2013 Action insieme a italiani e stranieri ha buttato giù la porta, lo ha classificato come edificio in disuso e, secondo la sua versione dei fatti, lo ha riqualificato. Appena entrati c’è una scrivania con due persone che fanno il “picchetto”, cioè i portieri che controllano che entra e chi esce.

Di soldi, nessuno parla. Dopo l’inchiesta della Procura di Roma che faceva emergere un possibile racket sugli affitti del palazzo occupato di piazza Indipendenza (poi sgomberato nell’agosto 2017), è un argomento tabù.

Attaccati al muro, decine di fogli con scritti i turni per il picchetto giorno per giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Gli occupanti abitano dal primo piano in su. Dagli uffici dell’Inpdap hanno ricavato abitazioni. Il vero punto di aggregazione è la taverna. C’è un vero bancone di legno che serve cibo e bibite e, subito dietro, una grande cucina. Questa sera stanno preparando la pizza, lavorano la pasta fino a formare un disco. Sulle pareti intorno affiorano graffiti degni di un pittore di alto livello. La chiamano la riqualificazione: “Quando siamo arrivati qui era un degrado, c’è stato un grande lavoro di stucco, pittura, falegnameria per trasformare l’edificio in un luogo abitabile”.

Si fanno anche lezioni di canto qui. Ce lo spiega Youssou, dopo aver finito di insegnare a due ragazzi, mentre fa vedere il video su YouTube di quando è stato ospite di Alle falde del Kilimangiaro su Rai 3.

Dall’altra parte della barricata ci sono i proprietari. Sono circa 100 gli edifici occupati a Roma, ci spiega l’avvocato Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia. E dietro questi 100 edifici ci sono 100 proprietari, per lo più privati. I proprietari si sentono inascoltati dalle istituzioni anche se portano avanti battaglie da anni. Molti di loro sono costretti a pagare IMU, TASI, utenze di acqua, luce e gas, interventi di manutenzione e sicurezza di un edificio che di fatto non è più loro.

La domanda è la stessa, posta stavolta dall’altra parte: cosa succede per i proprietari dopo uno sgombero? La risposta stavolta non è “niente”, ma non è comunque sufficiente per Confedilizia. Le indennità raramente corrispondono al vero ammontare di denaro perso e adesso, con la nuova legge del dicembre scorso, il calcolo di questa indennità è cambiato. Se prima si guardava al risarcimento del danno, adesso questo non appare più, era “un calcolo reale sui danni provocati passati e futuri in senso di mancato reddito”. Oggi “questa indennità prevista dal decreto sicurezza è stabilita con criteri di equità quindi assolutamente discrezionali”.

Intanto Youssou, l’occupante di via Santa Croce in Gerusalemme, ha ripreso a suonare il tamburo davanti a un bicchiere di vino. Non sa di chi sia l’edificio né cosa vi fosse prima né cosa ci sarà dopo. Si calca il cappello in testa, chiude gli occhi, batte le dita su quella vecchia tela macchiata e sorride con il mento all’insù. Mentre nella taverna si assegnano nuovi ruoli e nella cucina ci si prepara a infornare pizze per tutti.

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